L'Uccello Chiamato Airone

Il libro di Matrone è suddiviso in sette sezioni (L’attesa, Nella nebbia, Ho riposto lo scrigno, In silenzio, Lungo i sentieri della speranza, E scriverò dei versi, Immagini antiche); ognuna di queste sezioni, preceduta da una o più citazioni a mo’ di epigrafe, comprende tra le tre e le otto poesie. In tutto le poesie sono trentotto. A una prima lettura, le poesie appaiono estremamente semplici, tanto da dare l’impressione, in alcuni passaggi, di reminiscenze tardo ermetiche.

Il verso libero è formato da pochissime parole (una, due, tre, raramente quattro o cinque) che spezzano il periodo, isolando spesso un sostantivo, un aggettivo, un verbo, un avverbio, e si susseguono una dopo l’altra secondo un ritmo tutto interiore che non si preoccupa di costruire perifrasi. La punteggiatura è assai rada: qua e là si incontra un punto, altrove dei puntini sospensivi, più rare ancora le virgole, mentre i due punti si incontrano solo due volte. Assente tutto il resto. Gli spazi vuoti, sottolineano, poi, maggiormente le pause, il silenzio, l’intimità di una poesia che appare soprattutto come moto dell’anima. La sintassi del verso è estremamente semplice: pochissimi i costrutti adoperati.

La parola è in questo modo sottratta al mondo referenziale nel tentativo di porsi autonomamente in tutta la sua polivalenza, e di costruire uno spazio e un tempo che non trovano riscontro nella realtà. Il paesaggio che predomina la raccolta di Matrone, ben difficilmente, infatti, può trovare una sua collocazione storica e geografica. Lo spazio è metafisico: i colori evanescenti, sbiaditi, ingialliti. Solo qualche sporadica nota cromatica sembra rompere la labilità di questo paesaggio: la verde campagna, i neri capelli, il cappotto rosso della vecchia pazza, i fiori bianche degli aranci. Il candore del bianco è del resto una presenza costante in tutta la raccolta: bianche colombe, bianchi cavalli, avvolto in lino bianco, ali bianche di farfalla, bianche lenzuola, bianco come dolce poesia…

Matrone è particolarmente suggestionato dal paesaggio notturno, ma il buio della notte è quasi sempre attenuato dalle note chiare della luna, dalle stelle, dalla presenza di un gabbiano, o di una lampada che trema sui muri. In questo diffuso gioco di chiaro e scuro, donne, volti, occhi, fanciulle, bambini rappresentano un tu che non prende consistenza corporea e rimane indefinito: anche la donna amata è una creatura lontana che giunge dai confini del tempo. Vere e proprie ombre, mere presenze della memoria, questi fantasmi- l’assenza dell’articolo davanti al sostantivo, l’uso della terza persona, frequenti nella poesia del Matrone, mettono ancor più in evidenza questa indeterminatezza- riconosciuti come illusione e inganno, accentuano il senso di solitudine del poeta che attende invano il Mistero che conduce al di là della notte/ oltre i confini/ del dolore. Preso dalla paura e dall’affanno, Matrone vede allontanarsi i sentieri di speranza che si rivelano sognanti chimere lontane/ che hanno sapore di morte; e il sentimento di solitudine si traduce in lacrima e pianto. L’atmosfera di sogno di questa poesia è rotta da pochi rumori: qua rintocchi di campane/ leggeri/ cadono ovattati, là note/ di chitarra/ e voce / che canta alla luna, altrove un canto/ di fanciulla/ nella nebbia o quello dolcissimo/ di mia madre: è il silenzio che vola tra le nuvole/ sul fare dell’alba/ o al calar della sera, la nota costante di questo paesaggio. Su tutto poi la presenza del Tempo: tempo fatto di attimi, momenti, ore, stagioni; tempo fatto di attese, dolore, lamenti, preghiere, speranza; ma tempo che non si traduce mai in storia. Una sola volta, in tutta la raccolta, questa parola risuona, preceduta, però dalla preposizione senza: senza storia. Ma è proprio in questo mondo d’ombre evanescenti che trova nutrimento la poesia di Matrone. Ed ecco allora il poeta lasciarsi trasportare in uno stato di strano dormiveglia per ritrovare intatti i motivi della sua poesia. Può così di nuovo sognare, tremare, ridere, soffrire, amare, piangere, scrivere infine dei versi (e scriverò dei versi). Identificatosi in un uccello, il poeta-airone può ora percorrere i sentieri del cielo, riaprire lo scrigno che ha riposto e ritrovarvi immagini antiche. Queste ritornano nei sogni insieme agli echi/ di antiche parole/ e l’anima stanca/ si distende/ si placa/ gioisce/ e si riscopre/ finalmente/ eterna. Qualche altra cosa resta da dire su alcune parole che sembrano dare una connotazione storica a questo itinerario poetico (radio, telefono, treno), ma si tratta di note sporadiche ed estranee alla selezione contestuale che generalmente opera il Matrone. Quale giudizio critico dare ora a questa raccolta di poesie e soprattutto alla poetica che vi è sottesa? L’importanza che viene data all’elemento paesaggistico potrebbe indurre il lettore superficiale a collocare la poesia di Matrone tout court nel folclore di certa poetica meridionale.

In realtà il paesaggio da cui Matrone trae ispirazione non è di tipo naturalista; esso è, invece, da un lato paesaggio di memoria, dall’altro paesaggio letterario. La poesia di Matrone trova, infatti, i suoi motivi nella letteratura stessa: poesia di poesia dunque, anzi, poesia di letteratura. Il verso semplice, del tutto privo di retorica, fa pensare all’Ungaretti dell’Allegria, mentre i motivi e le tematiche ci riportano a quello, appena posteriore, del Sentimento del tempo. Significativa è, a questo proposito, la concomitanza di certe parole-chiave nell’uno e nell’altro: vita, tempo, pietà, morte, sogno. Un’altra fonte evidente sembra essere quel Federico Garcia Lorca dal quale altri poeti meridionali hanno tratto ispirazione (valga per tutti l’esempio di Vittorio Bodini). Anche in questo caso, parole ricorrenti quali luna, luce, canto, una discreta varietà di animali (colombi, cavalli, falene, cicale, gazzelle…), la citazione esplicita e significativa della sezione E scriverò dei versi, attestano questo debito di Matrone.

Ma questa competenza letteraria e poetica del Matrone, di cui si è fatto solo qualche esempio, trova, tuttavia, un limite cronologico (sembra che manchi il confronto con quella produzione poetica neo-sperimentalismo, nuova avanguardia, posteoavanguardia, laboratori di ricerca sulla poesia visiva, fonetica e così via che dalla seconda metà degli anni cinquanta si interroga sullo statuto della poesia, sui suoi mezzi linguistici, sulla realtà in cui essa si situa e che la determina); dall’altro avanzerei un’osservazione di carattere epistemico: il poeta non sembra preoccuparsi troppo di cogliere la natura e il valore del proprio fare poetico. L’autore adotta, così, un linguaggio semplice e spontaneo, lontano dalla tensione metalinguistica e dai problemi intertestuali che sembrano preoccupare i poeti contemporanei.

Salvatore Di Pasqua (saggista, critico letterario, Misure Critiche, n° 46-47, 1983)

Di Pasqua Salvatore - -

 
 
 
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