Non se l’abbiano a male i critici se insisto a ricordare l’atto di accusa di Carlo Bo alla critica italiana in un’intervista di Renato Minore sul “Messaggero... pensato in tempi lontani, più di quanto segni la data del 9.2.1994: “La critica viene continuamente assorbita e distorta dagli Uffici delle pubbliche relazioni: Tutto viene portato sul piano pratico di successo, di numero di copie vendute, di possibilità di collegarsi al cinema e alla televisione... tuttavia la letteratura continua a esistere... ma vive nelle catacombe... Tutto è confuso, va a capire dove sono le catacombe. Però sono sicuro: è lì che si sono rifugiati gli scrittori che magari neppure conosciamo e che non sono riusciti a superare le barriere delle diverse organizzazioni.”
(Ormai questa accusa ha valore testamentario, ma come poteva Carlo Bo leggersi gli infiniti libri che gli giungevano, i libri che aveva disposto anche in terrazza... Povero vecchio Carlo che scriveva a un mediocre poeta al quale si era arrischiato a rispondere di non perseguitarlo con le richieste alle quali seguivano continue telefonate.
Era soltanto un critico e casualmente poteva giungergli l’opera che parla e dice: “Prendi e leggi.” Piuttosto è l’ importante casa editrice a intimarlo.)
Eppure tocca lottare fin che si può, trovare un’oasi al dolore, se un libro valido ti giunge tra le mani e, cominciato, si fa leggere dal principio alla fine. Credo che scrivere degli altri che davvero valgono, si chiami anche cristianamente oblazione e si collochi al di là di ogni vanità letteraria e perfino convenienza spicciola…
Tuttavia scrivere un romanzo, oggi, è quasi un atto di eroismo, perché esiste una vistosa decadenza della ricerca spirituale e una cieca sudditanza a quanto viene quotidianamente insegnato dal dispotismo pubblicitario. Esso è un consolidato metodo per conquistare la generale buona fede, far crescere i profitti e produrre una penosa oscurità intellettuale.
Né devono trarre in inganno quegli intellettuali che al presente ottengono particolari successi; al contrario tocca segnalare coloro che reagiscono alla incultura dominante come Pasquale Matrone che si propone con Pompei e il Segreto della Porta del Tempo (Bastogi, il Canapo, 2003). Così, quando si riconosce un buon libro che si riesce almeno a leggere dall’ inizio alla fine non solo per dovere, si prova gioia e dolore insieme, perché vorremmo che tanti lo leggessero.
Il romanzo di questo autore ha in sé una grande capacità di sedurre o meglio condurre con sé il lettore: in esso vi è l’ordinario, lo straordinario, il paranormale, la storia di una Pompei reinventata, abitata anche da personaggi della nostra attuale realtà, e tutto nel lievito di una poesia incessante che non permette sbracature o perdite di forma. La forma, infatti, sta unita, essendo la sua Poesia la vera anima, perché come ab antiquo “matrice di tutte le arti” (Parmenide).
Non va dimenticato che a monte dell’ esperienza critica di Matrone e’ è un grande narratore Dino Buzzati dal quale egli ha appreso la maestria di mescolare realtà, sogno, mito, ma inserendovi una novità assolutamente originale in questi tempi squallidi: la motivazione pedagogica, tanto deprecata in letteratura quanto ormai necessaria.
La realtà appare sfuggente e non autonoma per cui ha bisogno di quelle indicazioni che sono rappresentate dai valori.
La narrazione parte dal tempo presente e dalle sue conflittualità, esso fa da spartiacque tra passato e futuro fino ad annullarsi, per gravi condizioni incorse nella mente del personaggio principale Marzio, un giovane studente in una scuola antipedagogica e volgare, subendo anche la separazione dei genitori per i reciproci egoismi. Egli così fugge da entrambi e ripara nella casa di nonno Orfeo per cercare se stesso, allontanando i genitori e le loro ansie.
Orfeo e Marzio, il vecchio e il giovane, sono figure reali ma altrettanto mitiche, perché è vero quanto scrisse il poeta greco Febo Delfi che “il mito è realtà”: “Nomen omen”. E lo dimostra Orfeo che ha perduto la sposa Euridice proprio nel presente e che racconta al nipote il suo magico incontro d’amore in una natura idillica, direi pastorale da rapportare pedagogicamente all’ antico mito. E proprio il mito, che si fa realtà, uccide il seme avvelenato nell’anima del giovane Marzio che ha timore di amare Alessia, dopo l’ esperienza dei genitori e si distrae anche dalla semplicità del suo amore innocente. Ma la poesia, ricorda il nonno, non muore mai e, nel raccontare, è buon maestro; si può rilevare che lo stesso Buzzati si orientava verso un tipo di narrazione che tocca l’esperienza poetica.
Matrone conduce di pari passo la realtà di questo nostro tempo, vissuta sulla pelle del giovane Marzio con scelte fantastiche, surreali, mitiche, storiche. La casa del nonno o l’autentico palazzo della cultura originaria del cuore e centrali nell’ ideale biblioteca, che poi ha un nascondiglio Segreto, sono le lettere dello zio Lucio che fungono letterariamente nel mosaico del contesto anche da digressione come i miti stessi della straordinaria città di Pompei degli dèi e semidei.
Le realtà trascorse divengono così mito reale e irreale allo stesso tempo e immanenti per gli occhi che avidi le leggono, trascendenti sono le lettere dello zio prete Lucio, destinate a scomparire in un’ altra realtà inconoscibile. Ben inserite nel mosaico della narrazione, illuminano un reale povero di eventi, per lo più negativi e nel disamore, investendo il giovane Marzio di un carisma, assegnatogli dai suoi cari morti, dalla città di Pompei, dalla sua storia personale e da una storia familiare, accaduta tanto tempo fa. Lo zio Lucio infatti fa il suo nome, a carattere di profezia; in una sorta di originale confusione cronotopica Marzio si sente conosciuto, atteso, nominato ed entra nell’ orbita del miracolo.
La casa del nonno è anche sito di fantasmi benevoli, da essa si accede a Pompei, ai misteri, ai riconoscimenti dell’ anima antica del mondo. La casa ha suoi passaggi segreti come “la porta” di Buzzati dalla quale entra Eura nel suo “Poema a fumetti” del ’69, però senza trappole, ché la vera trappola invece è il quotidiano, gli egoismi che dividono, il denaro, la paura, il sesso sprecato fuori dalla sacralità della vita.
Assume l’importanza di un viaggio nel tempo la visita agli scavi di Pompei di Marzio insieme al nonno e il malore che coglie il ragazzo, interpretato in un primo tempo come semplice insolazione, è scoperto poi come malattia di una certa gravità. Il “coma” del giovane diviene cosciente e paradossale e “vede” il passato, partecipa a più realtà sovrapposte. La fantasia del romanziere, ispirata, organizza “il delirio” con originalità di idee, intessute anche di storia, e la guida è sempre Orfeo, tale da sanare per gradi il presente, pervenendo alla coscienza lucida nella guarigione che realizza i valore della vita, perché ormai il nipote comprende come il nonno avesse ragione, una ragione evangelica, quella di non giudicare, ma di creare un legame d’ amore o anche d’amicizia tra i suoi genitori e di non far morire il suo idillio con una piccola dea antica e nuova, Alessia. Egli la spoglia allora dei miti fittizi e contemporanei ora che la donna si fa povera del suo corpo, di quanto di misterioso la rendeva desiderabile e “perfetta” nella bella capacità di alludere, di avere i suoi segreti, i suoi anfratti, destinati al rito nel corpo e nell’ anima. Marzio, prima di pervenire a questa capacità di amore, dono del nonno e della di lui pedagogia, si è fatto vittima sacrificale, ha attraversato il dolore psichico bruciante, la malattia, il timore della morte. La sua casa dei misteri è stata una casa di campagna dove c’è Orfeo, i fantasmi di Euridice e di altri cari defunti che, al limite della depressione, lo hanno salvato.
Di ritorno da Pompei attraverso il Segreto della porta del tempo, è divenuto un uomo nuovo, capace di commuovere e commuoversi anche degli errori come dell’ unica ricerca possibile che si confonde con l’ errare quindi con il viaggio. E’ il momento del perdono, della carità, di una costruzione della vita che vale la pena davvero di vivere.
Mi sembra un rilievo di particolare importanza la natura positivamente sincretica del romanzo, da quel punto di vista positivo che ho espresso ne “La dinamica del comprendere” (Bastogi 2002), fuori dalle accezioni filosofiche correnti e in relazione ad un’ estetica nuova.
L’autore paradossalmente è riuscito a scrivere un Bildungsroman, cosiddetto romanzo di formazione, per altro di una formazione accelerata, a causa delle deformazioni etiche e culturali di questa civiltà dei consumi che investono i sentimenti e che, forse, solo la malattia, la povertà con presupposti cristiani, il dolore, contrapponendosi ai falsi miti del benessere, del successo, di una malformata estetica, riescono a sconfiggere.
Questa è allora la storia di un giovane di oggi che vuole crescere, sapere quello che la scuola non insegna più, ormai orientata a un destino di “azienda minore”, fuori dalla vocazione e oppressa dai problemi economici che sembrano svalutarne il compito. Si insegna, forse, a sperare o fra i banchi passa il periodico del “Grande Fratello” per una libertà male intesa?
Ecco che la casa di Nonno Orfeo è un grande programma scolastico che va dalle elementari all’ università, alla vita fino allo sbocco nel perdono e nella carità di figli che diventano i padri dei loro genitori.
La figura di Orfeo nella realtà e nel mito è quello del Maestro di cultura e di vita per la proiezione di una speranza che travalica l’immanenza sino al sogno-verità dell’abbraccio con la sua Euridice, divenuta ormai apparizione e mito o, nel processo della santità, creatura da pregare anche per il nipote ammalato.
Non avevo mai letto un romanzo di formazione che si inserisse su diversi piani, scritto da un educatore che è poeta, portatore di uno stile comunicativo e comunicante, quindi di uso corrente da porsi, in senso oblativo, nella realtà di tutti e insieme nella comunione con l’Invisibile, con le figure del passato private e appartenente al patrimonio culturale.
Orfeo ed Euridice, nel miracolo della speranza, finiscono per proporsi, incarnarsi nelle figure del nuovo Marzio che vede con occhi innamorati la giovane Alessia, non intaccata dal male etico, pietosa del suo dolore che tocca archetipi-Sacramenti come il matrimonio.
Il carattere connotativo del romanzo, ricco di allusioni dà autentica “vis” al significato connotativo, così il linguaggio poetico plurisignifìcante, dinamico davvero, è lingua che fonde in una fiamma antica e nuova, nel riscatto dell’ordinario, a volte superficiale e banale del proprio tempo, improntato dall’egoismo e dal divertirsi a ogni costo... per morire magari sulle strade, fuori dalla discoteca a notte, ingannati da un’ estasi artificiale e prematuramente agonica.
Il diaristico viene inserito nella storia ma per essere letto in chiave fìlosofìca come una diegèsi o racconto puro nell’ accezione aristotelica, ma, inserito nel contesto, si intreccia a varie storie che sono reali, in tempi diversi da quello in cui si pone il narratore-demiurgo. E tutto ciò tra sospensioni, incastri e “suspense”.
I personaggi matroniani (si pensi a nonno Orfeo, alla sposa Euridice) partono da un Ethos o descrizione che li rendono similari ai personaggi mitici e questo in virtù appunto della poesia che non muore mai.
All’ inizio ho a ragione scritto di sincretismo: il libro di Matrone si avvale delle tecniche del “flusso di coscienza” cosicché può accadere che le storie mitologiche assurgano al livello di una voce interiore profonda. Il messaggio arriva a destinazione, perché è fortemente comunicativo nella sua “complessità stilistica” (a primo acchito non individuabile e quindi leggibile da qualunque lettore). Esercita un contenuto altamente pedagogico, avvalendosi delle cariche emotive (il cuore) e facendo dell’ insegnamento al nipote una delle più alte espressioni dell’ amore, della “pietas”. Tutto ciò (con quel tanto di “giallo storico” inserito abilmente, tra vicenda personale e universale) è affidato a una scrittura poetica e metalinguistica.
Con capacità rara il narratore riequilibra i codici letterari, senza separatismi per forme e temi, ne fa un “unicum” sotto la bandiera straordinaria della poesia. Cosi il lettore ritrova e si appassiona al dramma di Pompei, ai segreti di un giallo affascinante mai prevaricante e gratuito come non lo sono i vari inserti mitologici sugli dèi. Il mistero di ciascuno resta tale e suppone ipotesi, dettate da un caso che sembra ministro di Dio.
Matrone sa anche ricondurci al gusto di una natura idilliaca che corona ansie e incontri, amore e dolore, elegia e pace: è una natura madre che, seppure oltraggiata, nutre col calore di una fiaba per adulti e, forse, dolorosamente anche per adolescenti che non capiscono il distacco dei genitori, vivendolo come una rivolta ai valori veri più che una ricerca di composizione.
La comunicazione letteraria, oltre quella immediata del lettore, si fa così complessa in questo romanzo che a me pare nell’ apparente semplicità più rivoluzionario che reazionario magari con la scusa dell’ intento pedagogico o per aver seguito la “moda” del “Vai dove ti porta il cuore”. Se sia moda non sappiamo, perché ormai gli editori che contano finiscono per pregiudicare i libri validi e mettere in gioco anche l’obbiettività di quei critici, non asserviti al potere.
Così purtroppo un capolavoro contemporaneo può approdare ai grandi gruppi editoriali ma insieme alle storie insignificanti... mentre ai premi possiamo assistere al fenomeno di una confusione imperdonabile in cui conta l’ editore. Mi chiedo cosa succederebbe se si concorresse, editi in una tipografia anonima, in tal caso forse ci sarebbe più equità oppure nei premi, invece d’ essere in denaro, oggi, visto che i poeti che contano, sono tutti professionisti di valore, operatori presso gruppi editoriali di rilievo, la posta potrebbe essere in targhe e medaglie come accade in Francia. Ma i grandi editori sono “poverissimi” e i loro addetti rastrellano le province italiane.
Forse la moda dei premi cadrebbe di provincia in provincia e anche i piccoli editori comincerebbero a pubblicare molto meno “porcheria”. Pardon, non lo dimentico: siamo nella civiltà dei consumi e la poesia, pur non consumata, inviata al solito giro dei poeti, e critici assenti, viene, secondo le possibilità degli autori, preferita all’acquisto di una pelliccia o di una Maserati, quando poi non si scelga di pubblicare più che leggere, aggiornarsi.
Il destino di un romanzo valido, per sua stessa natura, dovrebbe però più della poesia raggiungere il maggior numero di lettori possibili. Ma siamo tutti davanti al televisore se non altro per conciliare il sonno, a meno che non si seguano le guerre minuto per minuto o si tema per la nostra incolumità.
Maria Grazia Lenisa (poetessa e saggista)
(Pomezia-Notizie)
Lenisa Maria Grazia - -
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