In una brevissima corrispondenza tenuta l’anno scorso con l’autore, mentre mi compiacevo vivamente per gli esiti formali del romanzo, mi permettevo di osservare che l’interna struttura m’era parsa troppo raffinata in quanto troppo ben “costruita”, per poter essere debitamente apprezzata da lettori comuni.
Si tratta, in effetti, d’un romanzo per lettori culturalmente ben preparati. E la ragione è nella stessa trama che, a un certo punto, fa un balzo all’indietro di venti secoli, facendo rivivere miti, fatti e figure di una Pompei splendida, di poco precedente alla eruzione vulcanica del Vesuvio del 79 d. Cr.
L’avvio della narrazione è legato al presente, per i tempi e le circostanze: Marzio, figlio di genitori separati, va a trascorrere una vacanza. presso il nonno materno, Orfeo, anziano docente di filosofia, che se ne vive solo, perduta la moglie Euridice, in una vecchia fattoria di Civita Giuliana, antico borgo rurale di Pompei. L’incontro col nonno e la pace del luogo liberano il ragazzo dalle angustie che lo affliggono: essendo innamorato di cose antiche, il nonno, per raccontare di sé e dei suoi avi, riscopre la favola di Orfeo ed Euridice, come rivissuta in prima persona; ed essendo anche un esperto archeologo, guida il nipote tra i resti della Pompei d’un tempo, ridando voce e vita alle pietre, alle strade, alle Piazze, alla gente che fece della città un centro dalle cento meraviglie.
Poi,un malanno improvviso, dovuto a un aneurisma cerebrale, costringe il nipote a giorni penosi in ospedale, in una sorta di dormiveglia da stato comatoso, durante il quale l’autore intesse gli eventi dei capitoli più affascinanti: “La notte dei misteri”, “La fattucchiera di Porta Nolana”. “Il termopolio di Asellina”, “La sacerdotessa di Iside”, “Il fantasma del Teatro Piccolo”…
Finalmente le mani esperte del Chirurgo Mago restituiscono Marzio alla vita e così egli ha modo di riattraversare,insieme al nonno e alla madre, la “Porta del Tempo”. Quattro giorni dopo 1’intervento chirurgico, Marzio riprende coscienza di sé, lasciandosi alle spalle giorni d’incomprensioni e di amarezze, soprattutto perché i genitori, “in quei giorni terribili si erano capiti e ritrovati”, decidendo di rimettersi insieme.
Romanzo a lieto fine, come si suol dire, in linea con la migliore tradizione ottonovecentesca, secondo la quale Eros,come scrive l’Editore, “al di là del dolore e della sofferenza, riesce sempre a vincere la sua battaglia contro Thánatos”.
Con l’amore, ovviamente, si celebra anche la “pietas”, intesa come sentimento di compassione suscitato dalla infelicità altrui. D’ accordo con Maria Grazia Lenisa, possiamo dire che dall’insieme della narrazione promani un nobile insegnamento etico-civile: la vita è un dono prezioso, che va apprezzato e goduto pur nel mistero che la lega alla morte; e l’uomo non è che “un granello di sabbia nell’universo”, ma può avvertire “la gioia inebriante” di sentirsi, allo stesso tempo, “anche unico, irripetibile”, addirittura una “parte importante del tutto”.
Col pessimismo dilagante che rischia di soffocarci, dovuto pur a sacrosante ragioni di ordine vario, bisogna riconoscere che Pasquale Matrone ha avuto del coraggio a costruire una “storia” intesa ad esaltare il positivo della vita. Meriterebbe anche solo per questo un sincero plauso. Ma un plauso maggiore merita per la lingua e lo stile: l’una, italiano purissimo, senza i dialettalismi e i barbarismi oggi tanto diffusi; l’altro, vivo ed efficace nelle parti dialogate, vigoroso nelle digressioni meditative, elegante nelle descrizioni paesistiche, perfino vagamente poetico negli indugi di più raccolto stupore.
Vittoriano Esposito (scrittore, saggista, critico letterario)
(Pomezia – Notizie, 2004)
Esposito Vittoriano - -
|