"La Porta del Tempo". da Pompei e il Segreto della Porta del Tempo


 
La Porta del Tempo

Per un attimo Marzio ebbe la sensazione di non essere solo nella stanza; si guardò intorno, alla ricerca di un segnale o di un indizio, sia pure piccolo, di altre presenze. Stava dando corpo alle ombre o alle sue fantasie? Doveva chiamare il nonno e confessargli che si sentiva male? Neanche da bambino lo aveva mai fatto. Sua madre e suo padre erano sempre troppo stanchi per svegliarli nel cuore della notte a causa di un ridicolo incubo. E poi, se li lasciava dormire era meglio: nel sonno non avrebbero litigato; e lui non avrebbe dovuto desiderare di fuggire da quella casa dove nessuno sapeva sorridere e dove, sin da quando era nato, gli avevano raccomandato di comportarsi da ometto e di imparare a vedersela da solo.

Orfeo aveva detto che non bisogna giudicare nessuno e che lui pure aveva sbagliato con sua figlia: non le era stato vicino, aveva dovuto dedicarsi ad altro… Anche zio Lucio, da quello che aveva letto, aveva dovuto vedersela da solo, con sua madre a occuparsi di tutto e il padre lontano, mentre lui, figlio di contadini, faticava come un mulo a realizzare quel progetto che si portava dentro sin dalla nascita. E il nonno? E i sacrifici per diventare professore universitario? Neanche per lui la vita era stata facile. Loro però una famiglia ce l’avevano. I genitori avevano saputo volersi bene e solo la morte era riuscita a separarli. E poi: la mamma di zio Lucio e i suoi bisnonni, anche se presi dal lavoro “da stella a stella”, erano stati presenti, li avevano aiutati a crescere, gli erano stati vicini, in quella fattoria così carica di affetti e di ricordi. A lui sarebbe bastato questo: che si occupassero un poco di più della sua vita, che non gli chiedessero in continuazione di comportarsi da grande, che non fossero sempre pronti e disponibili a comprargli tutto quello che gli passava per la mente di chiedergli solo per metterli alla prova.

La separazione, quella poteva anche capirla: ma perché non gli avevano domandato che cosa ne pensava lui; perché lo avevano tenuto fuori da quella decisione che lo coinvolgeva e che avrebbe segnato per sempre la sua vita?  Doveva continuare a fare l’ometto? Lui voleva essere un ragazzo come gli altri, magari con meno soldi e videogiochi, ma anche meno giudizioso. Perché comportarsi da adulti, quando non lo si è ancora, è una finzione, è contro ogni legge di natura.

Gli mancavano, Dio, se gli mancavano suo padre e sua madre! Ora, che nessuno lo ascoltava, non si vergognava di ammetterlo.  Li amava entrambi: gli andavano bene così. Anche lui aveva sbagliato a non mettersi a urlare come un matto davanti al giudice, che stava lì a fare i conti e a decidere della vita degli altri, senza pensare a quello che c’è nel cuore e nella mente di un ragazzo.

La corrente mancò, all’improvviso. E il buio imprigionò i brutti pensieri e, con essi, anche le stelle e la luna, oltre i vetri della grande finestra. Marzio non si perse d’animo. Ormai conosceva tutti gli angoli della casa e gli fu facile prendere una candela e i fiammiferi, in cucina, badando a non fare rumore per non svegliare il nonno. Prima di rientrare nella sua stanza, bevve a grandi sorsate dalla brocca di terracotta. L’acqua gli ridiede energia e lo aiutò a mandare via l’inquietudine e la malinconia.

Accese la candela e la sistemò nel candeliere di bronzo, sul comodino, prima di stendersi sul letto. Ora poteva riprendere la lettura del diario, non si sarebbe più fermato, avrebbe continuato fino all’alba, se fosse stato necessario.

La fiamma tenue spargeva intorno una luce riposante e fantastica. Ormai aveva vinto la lotta contro il sonno e  le ombre del passato. Nella stanza immersa nel silenzio, l’unica reale presenza era la sua. Ora che il tempo si era fermato, svuotandosi di ogni sorta di suono e di voce, cominciò, per la prima volta da quando era nato, a percepire i battiti del suo cuore e capì che qualcosa stava accadendo, stava per entrare in una nuova dimensione e che, da quel preciso momento, la sua vita non sarebbe stata più la stessa:

 Civita Giuliana

da  oggi ho deciso di non  segnare più la data nelle pagine del mio diario. Sono eccitato per quello che sto scoprendo: credo di essere giunto alla fine del mio percorso. Sto mettendo insieme i vari tasselli e, tra non molto, sarò in grado di completare il mosaico.  Ma procediamo con calma e per gradi, perché sono tante le cose che ho raccolto sino a questo momento. Non mi ero sbagliato: la lucerna a forma di barca e la piccola mano sinistra di marmo sono oggetti simbolici legati al  culto di Iside.

Nel mondo romano, con l’avvento della cultura ellenistica, si diffusero culti religiosi provenienti dall’Oriente, soprattutto quello egiziano della dea Iside che, a Pompei, contava una moltitudine di fedeli presso i ceti più umili. (Molte notizie le ho trovate nelle opere di Apuleio, scrittore, mago e gran conoscitore di misteri orientali).

Fu l’ imperatore Caligola il primo a far costruire a Roma, nel Campo Marzio, un tempio dedicato a Iside e a Serapide. Altri santuari furono edificati subito dopo nella provincia. A Pozzuoli ne venne dedicato uno a Serapide e a Pompei, dopo il terremoto del 62, il tempio di Iside fu il primo a essere restaurato.

Apuleio, nell’undicesimo libro del suo romanzo “L’Asino d’oro”, ci ha lasciato una bella descrizione del “Navigium Isidis”, “La Nave di Iside”, una cerimonia con cui, a primavera, si celebrava la dea come protettrice dei naviganti. Nei culti misterici, Iside era venerata come madre e dispensatrice di vita, come lo era stata per lo sposo Osiride che, ucciso dal suo crudele fratello Seth, da lei era stato ritrovato e ricomposto con pietosa e amorevole cura. Questa tragedia veniva rievocata nel periodo autunnale con una cerimonia che commemorava la morte di Osiride, la ricerca di Iside e, infine, la rinascita.

La festa si concludeva con una lunga processione i cui partecipanti erano pieni di entusiasmo e di fervore religioso.

Apriva il corteo un gruppo di donne, vestite di bianco e inghirlandate, che prendevano dal grembo petali di fiori e li lanciavano sulla gente, mentre altre cospargevano la strada di profumo e di unguenti delicati; intorno a loro, fanciulle e fanciulli dal volto sereno portavano lucerne, ceri, fiaccole e ogni altro tipo di lume per ricordare che Iside era anche la madre del cielo e delle stelle.

Subito dopo c’erano suonatori di flauti e di zampogna che, con una musica dolce, accompagnavano il canto delicato di giovani dallo sguardo limpido e innocente, e, alle loro spalle, una fiumana di iniziati: uomini e donne di ogni ceto sociale, in abito di lino candido e leggero, che agitavano i loro sistri d’argento, diffondendo intorno un tintinnio che esprimeva letizia, desiderio di purificazione e voglia di rinnovarsi.

Dietro questa folla semplice e solare, procedevano lenti e assorti, i sacerdoti, reggendo i simboli divini: una lucerna a forma di barca, un altare, un ramo di palma con le foglie dorate, un caduceo, un’anfora, un setaccio d’oro e una piccola mano sinistra di marmo, emblema della giustizia.

Iside, al cui cenno “spirano i venti, offrono nutrimento le nubi, germogliano i semi e crescono i germogli…”, era considerata la dea per eccellenza, capace di racchiudere in sé le virtù e le caratteristiche di tutte le altre divinità femminili ed era, nello stesso tempo, madre, sposa e sorella: perciò erano molti coloro che chiedevano di essere ammessi all’iniziazione.

L’iniziando veniva “ osirizzato” e cioè riceveva il dono dell’illuminazione, che lo rendeva simile a Osiride, dio del sole e della luce; in questo modo si rigenerava e cominciava la sua nuova vita, rischiarata dalla fede e dalla certezza di possedere ormai dentro di sé il segreto che gli avrebbe consentito di varcare la soglia del tempo e della morte. Il neofita doveva trascorrere un periodo di preparazione nel santuario, prima della purificazione alla quale seguiva un periodo di dieci giorni per la penitenza; la sera prima della cerimonia, poi, indossava abiti nuovi e, dopo una lunga meditazione, giungeva a uno stadio di finta morte in cui affrontava l’esperienza del transito nel regno delle ombre. Al mattino seguente avveniva la rinascita. Vestito di bianco e reggendo in mano una torcia fiammeggiante, l’iniziato, simile al sole, dall’alto di una tribuna vedeva scorrere davanti a sé una folla di fedeli.

Ora le cose mi appaiono più chiare. La lettura di Apuleio mi ha svelato la prima parte del  messaggio contenuto nella mia scoperta. Ma devo andare oltre; c’è ancora qualcosa che mi sfugge. Intanto, mentre rileggevo Apuleio, non ho potuto fare a meno di riflettere su un particolare a cui prima non mi era mai accaduto di pensare: il personaggio principale del romanzo si chiama Lucio come me e io ho ripreso tra le mani l’opera di questo autore solo dopo avere fatto la scoperta in cantina: sono stati gli oggetti custoditi nella cassetta a condurmi sino ad Apuleio e alla storia di Lucio. Don Remo mi ha da sempre ripetuto che tutto ha un senso. Qual è il senso delle cose che mi stanno accadendo?

A Marzio era sembrato di vederlo coi suoi occhi il corteo descritto da zio Lucio, al punto da sentirsi quasi mescolato a quella folla gioiosa che si muoveva nel candore e nella preghiera. Iside era la dea della pietà e della vita, una divinità misericordiosa, capace di ridare la luce a chi si era smarrito nel regno delle ombre. Anche lui, come suo zio, si rendeva conto di essere vicino alla scoperta del significato di tutto. Nel giro di pochi giorni si era calato in una realtà di cui prima non avrebbe neppure immaginato l’esistenza. Lui, che coi libri non aveva mai avuto un buon rapporto, ora non vedeva l’ora di immergersi nella lettura per esplorare sino in fondo quell’universo che gli appariva sempre più vicino e seducente.

Sarebbe andato a dormire solo dopo aver letto l’ultima pagina del diario. Si sentiva bene, tranquillo, riposato. Le inquietudini e l’angoscia erano ormai lontane da quella stanza, rischiarata a malapena da una luce che gli curava l’anima come una medicina. La luce! I nomi hanno un significato. Lucio significa luce. Suo zio gli stava illuminando il cammino. Un fratello del bisnonno, mai conosciuto prima, morto quando era poco più che un ragazzo, ora era diventato il suo amico, un coetaneo giunto a fargli compagnia e a tendergli la mano nel buio in cui stava quasi per smarrirsi... Uno zio misterioso e magico, come Orfeo. Perché anche il nonno doveva averceli dentro il mistero e la magia.Il suo rapporto col sole, le lunghe meditazioni, davanti al tramonto e all’alba, in silenzio, assorto e con lo sguardo fisso nel vuoto e nel nulla, ne erano una prova inconfutabile.

   Riprese a leggere:

 Civita

ho letto  altre notizie su Iside. Fra gli appellativi a lei attribuiti nell’antichità troviamo: “Colei dai mille nomi”, “creatrice di ciò che è verde”, “verde dea, il cui colore è simile al verdeggiare della terra”, “signora del pane”, “signora dell’abbondanza”, “regina dei campi di grano”. Una dea agreste, dunque. Soprattutto presso i greci che la identificavano con Demetra.  Nella Roma imperiale, invece, in un’epoca di decadenza, quando ogni fede tradizionale era scossa, quando tutto entrò in crisi e la gente vide dissolversi le certezze in cui aveva creduto, l’immagine serena di Iside, con la sua pacatezza spirituale e la sua misericordiosa promessa di immortalità, cominciò a essere vista come stella in un cielo tempestoso. La stessa immagine che, molti secoli dopo, soprattutto a partire dal Medioevo in poi, si ebbe della Vergine Maria. Nelle varie raffigurazioni dell’antichità, la dea che allatta il figlio Horo appare molto simile alla Madonna col suo Bambino. E proprio a Iside, che dai navigatori greci di Alessandria era stata venerata come protettrice dei marinai, la Vergine Maria deve l’appellativo di “Stella Maris” con cui ancora la invocano, durante le tempeste, coloro che temono di essere travolti e uccisi dalla furia delle onde.

Tutto quello che mi sta succedendo è da mettersi in relazione col significato della vita e della morte e con le cose urlate dalle Majane in quella brutta notte di tempesta. Ma non basta ancora. C’è altro. C’ è il significato, dei nomi, degli oggetti e della profezia. C’è un destino nei nomi, ne sono convinto. Il mio è un nome che ha a che fare con la luce; e io sento che sto per assistere a qualcosa che dovrà illuminarmi e rendermi capace di illuminare a mia volta. Avere un’illuminazione equivale a cogliere in un solo attimo ciò che a lungo è rimasto nascosto alla nostra debole vista. Don Remo me lo ha ripetuto spesso. E l’illuminazione può giungere da un momento all’altro, se l’anima si pone in ascolto e l’occhio si allena a percepire i segnali che ci giungono da lontano. Io ho trovato in cantina oggetti che hanno un messaggio da trasmettermi. Ritornerò in cantina e cercherò la serratura adatta a quella chiave. So che la casa è stata costruita sulle rovine di Pompei. Devo vincere ogni altra esitazione e rimuovere le pietre del muro a secco posto proprio sulla parete di fondo: mio padre non lo ha mai voluto abbattere. “Sta qui da quando sono venuto al mondo questo muro” mi ha sempre ripetuto, prima che partisse. “Protegge la cantina dai lapilli, che, senza questo riparo, franerebbero all’interno; lasciatelo così com’è, non ci mettete le mani, è pericoloso.” Io e i miei fratelli gli abbiamo creduto. Ora è arrivato il momento di guardare; scenderò in cantina e porterò con me la chiave e gli altri oggetti. Ho rimesso in funzione la lucerna, mi aiuterà contro il buio e la paura che ancora tenta di insinuarsi nel mio cervello. Devo andare; e devo farlo da solo. Perché ognuno è solo di fronte alla vita e alle prove che è chiamato a sostenere. Andrò. La moneta d’oro e la piccola mano saranno i miei talismani. Ho il dovere di non coinvolgere nessuno in questa impresa. Perché nessuno può sostituirsi a me, devo procedere con le mie forze. Se non dovessi trovare nulla, lo prometto a questo foglio bianco, riconoscerò la mia presunzione e parlerò della mia scoperta col mio professore. Se dovessi trovare la porta segreta, deciderò poi il da farsi. Se, infine, non dovessi più fare ritorno…

 

A questo punto Marzio si sentì di nuovo attraversare da strane sensazioni. La risposta era vicina, bastava girare la pagina. Ma non volle farlo subito. Bevve ancora dalla brocca di terracotta e tentò di rimettere in funzione la sveglia. Fu una fatica inutile, non andava più. La fiamma della candela era immobile come le lancette, che avevano smesso di segnare il tempo.

Di nuovo cominciò ad ascoltare il silenzio. “Il silenzio è carico di voci” gli aveva detto una sera nonno Orfeo. “Bisogna imparare ad ascoltarlo. Io lo faccio all’alba e al tramonto ogni giorno. Ascolto. E mi sento rigenerato e forte. So che ti sembra strano, se non addirittura un po’ bizzarro, ciò che dico, ma sono convinto che presto capirai anche tu, perciò non insisto con le spiegazioni. Ne farai esperienza diretta e non sarai più quello di prima. Ognuno di noi è solo di fronte alla vita e alle prove che è chiamato a sostenere. Nessuno può sostituirsi a lui, deve procedere con le sue forze. Così ho fatto io, quando la sofferenza e il rumore del mondo stavano per avere ragione della mia resistenza e io ero quasi pronto alla resa.”

 

Parole molto simili a quelle lette nel diario. Il nonno, dunque, conosceva anche lui il segreto dell’armadio? E per quale motivo non gliene aveva mai parlato?  Mistero, magia, sogni, incubi, Majane, culti e simboli creavano nella sua mente una trama fantastica e vasta come l’oceano in cui gli sarebbe piaciuto in quel momento navigare, magari su una zattera che si lasciava portare fiduciosa dai venti favorevoli o su una nave che solcava tranquilla le acque sotto la protezione di Iside, la madre tenera che stringeva il piccolo Horo tra le braccia, mentre dal seno gli lasciava succhiare latte e amore. Le parole di zio Lucio gliel’avevano quasi dipinta e lui aveva la sensazione di averla vista, di conoscerla. La conosceva: aveva il volto di sua madre! Era quella l’immagine che preferiva di più: ce l’aveva nascosta nello zaino; l’aveva rubata, prima di partire per Civita, facendo attenzione a non lasciarsi vedere. Era bella sua madre. Ed era stata dolce con lui in quella vecchia foto, prima di affidarlo alla balia e alla scuola. C’era, nello zaino, anche la foto di suo padre, con lui piccolo, entrambi distesi sulla sabbia, con la schiuma del mare sugli scogli e la gioia scritta negli occhi… 

No, non somigliava a sua madre, si stava sbagliando. Iside era diversa, era forte, non si era arresa, neppure di fronte alla morte: aveva rimesso insieme i miseri resti del suo sposo e gli aveva infuso dentro di nuovo il vento della vita. Lei lo amava, era il suo sole, la ragione stessa della sua esistenza.

Una sola pagina ormai lo divideva dal mistero della porta nascosta. L’ansia di sapere cresceva, ma non si sentiva pronto; la sua mente lo stava conducendo attraverso ricordi ancora densi di rumori che gli impedivano di ritrovarsi. Non era facile, in quel momento, proteggere il silenzio dalle interferenze incontrollabili e crudeli della memoria, che lo imprigionava al presente e a un dolore difficile da sopportare.

Fissò ancora la fiamma della candela. Si concentrò come mai gli era accaduto di fare prima.  Sempre di più. Fino ad avvertire di nuovo, con intensità sempre maggiore, i battiti del proprio cuore. C’era riuscito, finalmente. Era quella la voce del silenzio. Era la sua. Era la voce del ragazzo che si chiamava Marzio. Il nonno un giorno glielo aveva spiegato il significato del suo nome: derivava da Marticos, sacro a Marte. Per i Romani Marte non era solo il dio della guerra, era anche la divinità a cui veniva attribuita la vegetazione di primavera e a cui era stato consacrato Martius, il primo mese dell’anno. Era un dio guerriero il cui compito era non quello di seminare la morte, bensì quello di proteggere e difendere i raccolti maturi. Marte e Venere avevano dato inizio alla famiglia Giulia e a tutti i loro discendenti. Davanti al tempio di Marte, prima di partire per le loro spedizioni, i generali ripetevano la formula: “Mars, vigila!”, “Marte, veglia!”

I battiti del cuore gli dicevano che era vivo, che zio Lucio e suo nonno avevano ragione: lui si sentiva Marzio, sentiva di dover vigilare, per capire le cose che tra qualche minuto avrebbe letto:

 Civita, ultima pagina del mio diario

    Caro Marzio,

 immagino quello che stai provando in questo momento. Ti senti chiamare per nome e sai che a scrivere sono proprio io, Lucio, lo zio di tuo nonno, autore del diario e di quest’ultima lettera indirizzata proprio a te.

 

 Marzio cominciò a tremare: com’era possibile, stava forse sognando? Zio Lucio gli stava parlando, si rivolgeva proprio a lui; queste cose non possono accadere, la ragione non può accettarle, sono impensabili! Fissò con sguardo implorante il ritratto dei bisnonni sulla parete: lo aiutassero loro, per carità, era troppo …

Il sorriso appena accennato sul volto dei suoi antenati, in quella vecchia foto ingiallita, fu il rimedio giusto. Si sentì pervadere quasi subito da una sorta di benefico torpore che gli infondeva fiducia: avrebbe capito presto, poteva stare tranquillo, lo avrebbero aiutato; zio Lucio avrebbe vegliato su di lui, come fanno gli angeli.

 Riprese in mano il diario e continuò a leggere:

 

… Metti da parte ogni timore e non meravigliarti di nulla. Ti ritrovi in questa stanza, dove prima io e poi tuo nonno abbiamo studiato e sognato, a distanza di quasi un secolo da quando sono state scritte le pagine che, da qualche giorno, hai cominciato a leggere. Anche se l’ostacolo che stai affrontando in questo brutto momento supera di molto le tue forze, sappi che ce la farai. Tra poco ti verrà concesso di entrare in un’avventura straordinaria e indimenticabile.

La mia esistenza sarà breve ma intensa. Mi è stato affidato il compito di portare il sorriso e la luce ai ragazzi che, poco più grandi di te, lasceranno la loro vita in trincea, vittime della guerra. Non m’importa dell’esiguità del mio tempo, mi fa soffrire, invece, l’idea di una tragedia che non ho il potere di fermare e che tra non molto funesterà il mondo intero.

Devo dire qualcosa a proposito del tuo nome. Mio nipote ti darà una giusta spiegazione, quando lo collegherà con Marte e con quello che questo dio rappresenta. Sappi, però, che Marzio (Marco, se preferisci) è anche il nome di uno degli evangelisti che, prima di chiamarsi come te, era Giovanni, che significa: “ Dio ha avuto misericordia.”

Avrai tutto il tempo di capire il motivo di questa mia precisazione.

Ti sei ripreso? Sorridi, ti prego e metti da parte la paura; fammi essere ancora degno del nome che porto. Da questo momento dedica al sorriso e alla gioia gli anni che ti sono stati assegnati. Hai il dovere di farlo, perché nel mondo sono troppe le lacrime e le sofferenze. Impara a ridere e a sorridere e sforzati di contagiare con la tua gioia tutta la gente che incontrerai sul tuo cammino. Non sarà un compito facile, perciò è stato affidato proprio a te che sei una persona speciale.

Dopo questa premessa che mi è apparsa indispensabile, devo dirti un’ultima cosa, che ci riguarda entrambi, come avrai modo di constatare di persona.

Ieri sera, quando sono uscito di casa, ho trovato, ad aspettarmi, Attilio, il gatto nero. I suoi occhi gialli brillavano nel buio. Mi ha fatto strada, senza emettere neppure un leggero miagolio. In fondo alla cantina, proprio dietro il vecchio muro, le cui pietre ho spostato senza fatica, ho trovato la Porta del Tempo, vi ho infilato dentro la chiave e, in pochi attimi, sono riuscito a spalancarla e a passare.

Non è necessario che io stia qui a raccontarti ciò che, presto, potrai vedere coi tuoi stessi occhi, se ne avrai il coraggio. So che mi somiglierai molto; ne sono contento e orgoglioso. Mentre scrivo, ho la stessa età che avrai tu, quando leggerai, sulle pagine del mio diario, questa storia in apparenza impossibile. Ma io e te sappiamo che è tutto vero.  Ne sarai convinto ancora di più, dopo che avrai conosciuto anche tu il meraviglioso segreto che si nasconde oltre la Porta del Tempo.

Prendi, ora, la chiave, la lucerna, la moneta e la piccola mano e lascia pure sul tavolo la cassetta e il diario. Ritroverai le pietre al loro posto e provvederai a spostarle come ho fatto io. Parti subito, appena avrai finito di leggere, e ricorda: non potrai raccontare a nessuno le cose che vedrai durante il viaggio. Sarà un’impresa dura di cui scoprirai la ragione solo alla fine e dopo aver superato una serie di prove da affrontare con intelligenza, sensibilità e coraggio.

Carissimo Marzio, anche se ci è toccato in sorte di vivere in due epoche così lontane e diverse, non dimenticare mai il privilegio grazie al quale abbiamo avuto la possibilità di “incontrarci” e sappi che ho cominciato a volerti bene da sempre. Con affetto, zio Lucio.

 

 Marzio aveva appena finito di leggere, quando il diario e la cassetta si polverizzarono davanti ai suoi occhi. Solo gli oggetti che doveva portare con sé rimasero intatti sul tavolo. Tutto era immobile nella stanza. La candela era rimasta quella di prima, aveva continuato a diffondere intorno lo stesso magico chiarore…

All’improvviso, la finestra si spalancò, senza una ragione e qualcosa, che per un attimo sembrò vento, spense la piccola fiamma, spargendo nel nulla i granelli di cenere ammucchiati sul tavolo.  Marzio mise in tasca la chiave, la piccola mano e la moneta e accese lo stoppino dell’antica lucerna, prima di aprire la porta.

 Fuori, nel buio di una notte priva di rumori e senza luna, c’era un magnifico gatto nero dagli occhi gialli. Lo stava aspettando: era pronto a indicargli la strada.

  

Cap. V del romanzo "Pompei e i segreto della Porta del Tempo", ed. Bastogi, 2003

 
 
 
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