Giacomo Luzzagni

Nome: Giacomo Luzzagni
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Il tempo, le parole e la memoria in “Cacanido” 

Articolo di Pasquale Matrone (pubblicato su La Nuova Tribuna Letteraria)

Nei momenti più intensi e passionali dell’amore e della gioia, la parola non si lascia irretire dagli schemi controllati delle convenzioni e delle regole che governano le relazioni sociali. L’immediatezza e l’autenticità di ciò che si prova in quel preciso momento trova sfogo vivo e completo in quei vocaboli che una voce calda di madre ha associato, per la prima volta, a emozioni e sentimenti che  condivideva e insegnava, stabilendo il primo contatto del frutto del ventre suo con l’universo complesso e variegato del mondo posto oltre i confini della loro intesa privilegiata e segnata nella carne…

La lingua madre, dunque, e con essa il dialetto, è quella che ha il potere di farsi deposito di memoria, affetti, tradizioni, sapori, costumi, volti, voci, verità, valori… Per questa sua preziosa e insostituibile funzione, la parlata di quel fazzoletto di terra che ci ha visto muovere i primi passi, nel mentre ci insegnava la musica di sottofondo dei primi balbettii,  non può dissolversi nel nulla. Non deve. Rappresenta l’ultimo baluardo e approdo. Essa sola può consentire a un’umanità sempre più massificata, amorfa e  linguisticamente violentata da un’omologazione che ne ruba l’identità, di ritrovarsi  e di riappropriarsi delle ragioni del suo esserci.

È questa l’intenzione che, da anni, guida e dona vigore all’opera instancabile di Giacomo Luzzagni, intellettuale e poeta, costretto dalla vita a sradicarsi dal suo paese da più di mezzo secolo. Da allora, vive e opera in una regione generosa che non gli ha mai negato amore e rispetto, stimandolo nella sua veste di educatore illuminato da una visione pedagogica di ampio respiro, in quella di animatore culturale brillante e coinvolgente e in quella di poeta capace di cantare delicate melodie, lontano dai riflettori, con umiltà e con pudore dignitoso e virile. Questo, però, non gli è mai bastato. L’eco di voci remote non lo ha mai lasciato solo: neppure quando, superati gli anni duri della giovinezza e della prima maturità, ha acquistato la capacità di confrontarsi con la nostalgia e il rimpianto per  le cose che, per necessità e per voglia di volare, ha dovuto lasciarsi alle spalle. Per questo motivo, anno dopo anno, con una passione che, nel tempo, si è fatta sempre più consapevole e intensa, ha condotto, con amore e, soprattutto con estrema perizia, uno studio sui reperti linguistici di santa Margherita di Sicilia.  Ha messo insieme tutto quello che poteva, non trascurando nessuna fonte: l’orecchio teso ad ascoltare, un taccuino e una penna sempre a portata di mano e la voglia febbrile di accumulare parole: proverbi, modi di dire, imprecazioni, magie, nomignoli, tradizioni, costumi, folklore, fiabe, testimonianze orali, documenti di archivio…

Cacanido, edito nel 2008 da Venilia, la casa editrice da lui fondata e diretta, è la continuazione di un’indagine che, pur risultando già assai corposa dal punto di vista documentale, Luzzagni non smetterà mai di condurre, in virtù dello spirito e delle ragioni che lo sostengono nell’impresa. 

In una nota introduttiva, Luzzagni dichiara che il linguaggio è rivelatore del  ‘carattere’ della comunità che lo esprime, del suo modo di comunicare e di elaborare la parola per rendere più efficaci i significati e gli stati d’animo che si intendono esprimere e trasfondere, al fine di una comunicazione che produca l’effetto che meglio si desidera, per manifestare la propria condizione anche esistenziale… Questa sua precisazione muove dal convincimento di dover contribuire, con gli strumenti a lui più congeniali, a dare una risposta efficace all’incomunicabilità: una delle malattie più perniciose di tutte le epoche storiche e, soprattutto, di quella contemporanea. La torre di Babele, grande metafora usata dalle Scritture, rappresenta, oggi più che nel passato, l’emblema inquietante della complessità delle trappole nascoste nei codici e nel senso delle parole utilizzate per mettersi in relazione gli uni con gli altri. Gli stessi vocaboli, in ambiti culturali, storici, geografici e sociali diversi, finiscono col mutare totalmente di significato. I dialoganti si confrontano ma non riescono a trovarsi in sintonia, a comprendersi, a stabilire, tra loro, un contatto sia pure minimo. Hanno alle spalle, vissuti, cultura, esperienze di varia natura… Le stesse parole, dunque, finiscono col rivelarsi inadeguate a esprimere, descrivere e trasmettere messaggi utili a stabilire un dialogo efficace, armonico e costruttivo.

La parlata di un popolo ne rappresenta la forma, l’essenza, l’anima. Comprenderla vuol dire possedere la chiave per entrare nel suo universo valoriale e umano. Luzzagni sa che il patrimonio lessicale di una generazione non può e non deve essere ritenuto adatto anche per quelle che la seguono: col passare degli anni, le parole subiscono una metamorfosi, adeguandosi a nuove esigenze ed esperienze. Ma sa pure che proteggere la lingua dei padri serve a mantenere vivo il dialogo con quanti, avendo avuto la ventura di precederci, costituiscono l’humus in cui le nostre radici si nutrono e senza il quale i tronchi e i rami che noi siamo rischierebbero di non crescere: apparirebbero scheletrici, asfittici,  sterili. Mettersi in contatto coi padri non vuole dire tornare indietro o rimanere schiavi del passato bensì soltanto ritrovare la propria identità, le ragioni del presente nonché il vigore necessario per proiettarci nella direzione a noi più congeniale e soprattutto più redditizia per la qualità della vita nostra e di quella degli altri.

Tra un dialetto e l’altro, al di là delle apparenze, esistono affinità e somiglianze inaspettate. Luzzagni, grazie alla sua doppia anima di siciliano e di veneto, è avvezzo a queste scoperte che lo affascinano, schiudendo alla sua indagine un ventaglio sempre più ampio di prospettive. Cacanido, il vocabolo scelto come titolo della raccolta è uno degli esempi da lui usato a sostegno della sua tesi. Il termine, nella lingua maggaritana, indica l’ultimo nato di una ‘nidiata’ di figli; nel padovano, la locuzione equivalente è scoagnaro, che significa scopanido

Stimolato dall’esempio, nel mentre leggevo, ho continuato l’indagine. E ho avuto fortuna: il vocabolo in questione viene usato dallo scrittore catanese Giuseppe Bonaviri, da Giuseppe Gioacchino Belli nei sonetti romaneschi, dagli abitanti dell’Isola del Giglio, da quelli del comune di Grassano in provincia di Matera…

La parola Cacanido, per Giacomo Luzzagni, rappresenta qualcosa di molto più intimo e forte. Perché è quella che lo rappresenta nella maniera più autentica. Lui, ultimo nato della sua famiglia, è rimasto il solo testimone della nidiata un tempo ricca di presenze, di affetti, di calore e di voci. Gli altri, uno dopo l’altro, se ne sono andati: in silenzio, con la loro esperienza e i loro pensieri. Sono scomparsi nella nebbia verso la quale è inutile e frustrante tendere le mani. Siamo, nel mondo, viandanti che muovono faticosamente i loro passi lungo il cammino che porta verso il Mistero indecifrabile e lontano. È toccante e sovrumano il desiderio di proteggere quel poco che rimane di quelli con i quali ci siamo scambiati respiro, intelligenza, fatica e cuore. Non è più possibile ritrovarsi, sia pure per un istante solo, attorno a un tavolo: a  raccontarsi storie, a consumare un pasto modesto, ma dal sapore unico e irripetibile… Non si può. Si può, invece, costruire un altare di parole: oneste, schiette, ironiche, semplici, graffianti, poetiche, amiche, rasserenanti, antiche; si può tentare di dare forma alla memoria, ai volti, ai ricordi, alle immagini… Mediante una scrittura capace di farsi atto di amore, di fedeltà e di speranza, si può tentare di dipingere un grande affresco. E metterci dentro: il fiume che attraversa la vallata; la scuola elementare di Santa Margherita; le foto di Pippinu Trapiddhu, Giuseppe Caruso, Antonietta Gualtieri col marito Antonino Geraci; quella che ritrae, in atteggiamento che esprime bontà, dignità e fierezza, Francesca Geraci con i figli Tanina, Carmelo e GiacominoGiacomino, soprattutto, quello a cui è toccato in sorte di farsi testimone, di salvare la memoria degli assenti: proprio lui, l’ultimo della nidiata: il cacanido che, appoggiato alla sedia, indossa la cravatta, il vestitino nuovo col fazzoletto nel taschino e ha già, dentro gli occhi pieni di determinazione e di luce, un orizzonte ricco speranza, di fatica, di progetti e di sogni.

Mbivijàcqua

Articolo di Pasquale Matrone (pubblicato sul n° 88 della rivista9

Mbivijàcqua è il soprannome di Pippina, madre di Giacomo Luzzagni. Lo ha ereditato dal padre Jacupu che, da vecchio, seduto sulla soglia di casa, alle donne con le brocche piene, era solito chiedere: «... ma dati na schizza d'acqua?».

"Soprannome", nei paesi siciliani, vie­ne tradotto col termine nciùria e cioè no­mignolo usato per ingiuriare, offendere. Perché di solito è così: serve a mettere in risalto un difetto fisico o morale, un com­portamento incivile, uno stato sociale di subalternità... Luzzagni, però, va oltre questa interpretazione. Lui, maggaritano vero, (nato cioè a Santa Margherita di Messina) e, da più di mezzo secolo, pa­dovano di adozione, pur riconoscendo la validità di quanto riportato dal vocabo­lario del Centro di Studi Filologici e Lin­guistici Siciliani e dal Dizionario Etimo­logico della Lingua Italiana, ritiene indi­spensabile attribuire al vocabolo un sen­so più ampio e positivo. Per lui, infatti, nciùria deve intendersi, anche e soprat­tutto, come un segno di identificazione di cui la comunità, un tempo, aveva bi­sogno per stabilire l'identità dei propri membri, al di là dei dati anagrafici ap­partenenti alla cultura ufficiale e vissuti come un'imposizione burocratica del­l'apparato civile in cui la comunità stessa non si riconosceva...

E questo lo spirito col quale Luzzagni ha scritto Beviacqua, un libro che è il frut­to di un'indagine paziente e appassiona­ta durata molti armi e mirata a raccoglie­re soprannomi con aneddoti, storielle e ricordi del paese natale, in Sicilia. L'inda­gine non ha dunque intenti canzonatori. L'autore sente il bisogno di sottolinearlo, anche se il lettore lo capisce subito, sin dalle prime pagine. Il suo è, innanzitutto, un vero e proprio canto d'amore nei con­fronti di un paese indimenticabile, fedele "custode" di radici mai ignorate o strap­pate: luogo sacro di memorie a cui conti­nuare ad abbeverarsi nel tentativo di da­re sollievo e risposte a una sete destinata a non essere mai sazia. "Nomen, omen" (il nome è un presagio), dicevano gli an­tichi. E avevano ragione. Più va avanti negli anni Giacomo Luzzagni e più av­verte il bisogno di dissetarsi all'antica sorgente. È un Mbivijàcqua "natu sputa- tu", direbbe il verghiano padron 'Ntoni Malavoglia.

Chi lo conosce, lo sa bene. Luzzagni s'illumina al solo pensiero di ritornare, sia pure per pochi giorni soltanto, nella sua Sicilia. Nonostante la distanza, gli piace prendere il treno, viaggiare di not­te, dormire in cuccetta. Il sonno lo aiuta: gli consente di vincere quell'ansia che, di giorno, gli risulterebbe difficile controlla­re. Al risveglio, poi, si rinnova la magia di sempre: la sua terra è rimasta ad aspettarlo, anche se, alla stazione, non ci sono più le braccia calde di Pippina a stringerselo al petto, in silenzio e con gli occhi attraversati da una dolcezza capa­ce di placare ogni sorta di tempesta; né ci sono più molti degli amici di un tempo. Come Santino Pantò, suo compagno di "avventura", morto giovanissimo a Bo­logna: con lui, da ragazzo, andava a impiccacciari negli oliveti per raccogliere le olive sfuggite all'attenzione delle racco­glitrici...

Se si guarda intorno, però, quando la­scia la stazione fa fatica a ritrovare il mondo che, spinto dalla necessità e dai sogni giovanili, fu costretto a lasciare, na­scondendo nella gola il dolore di chi si separa dagli affetti più cari e l'angoscia di un "esilio" carico di incognite e di ri­nunce. Ora, di quel mondo, sono rimaste solo le tracce, i fantasmi e i ricordi co­stantemente sottoposti all'impietosa mi­naccia degli anni e dell'oblio. La società dell'avere e la cosiddetta civiltà del be­nessere hanno inondato di cemento quel che resta dell'antica comunità contadina e patriarcale. Le villette, più o meno abu­sive, sono sorte come funghi; e chi avreb­be dovuto non ha fatto nulla per proteg­gere, con adeguate opere di contenimen­to, creature e cose dalla strettissima vici­nanza del mare. Solo le pietre del borgo vecchio ancora resistono, a fatica, conti­nuamente insidiate dall'avidità di quanti le hanno ereditate senza conoscerne la storia. È rimasta quasi intatta la scuola elementare: quella della maestra Occhipinti e della bidella donna Vènnira; e con essa, le vie: Gorizia, stretta e bellissima come una calle veneziana; San Martino, col vecchio palmento; Trieste, con i bal­coni di ferro battuto; Bellone; Damuso; Vallone; Bagni; Fiume, quella che porta alla fiumara, teatro di giochi fanciulle­schi, di ricordi e di storia locale... Della fornace di mastru Ninai e di quella all'Òttira, vi sono, ormai, soltanto malinco­nici ruderi di cui le nuove generazioni non conoscono nulla. I giovani non san­no, perché ormai nessuno parla più di quell'universo che, con travolgente rapi­dità, il tempo ha ingoiato cancellandone persino le orme. In quell'universo sem­plice ed eroico, nel passato, si muoveva­no: Pupitta, Bbiondina, Nasònti, Scianca- tu, Mussustottu, Sgarrìgnu, persone identificate per le loro caratteristiche fisi­che; e gli altri: Gilatèra, Stagnimi, Putichinèra, Scupàru, Scapparicchìu...,

Il saggio di Luzzagni è stato costruito con strumenti ineccepibili sul piano scientifico. La ricerca, condotta con stra­tegie adatte ad affrontare un tema che chiama in causa antropologia, etnogra­fia, economia e sociologia, risulta ricca, ben documentata, rigorosa, originale, umana e poetica. Perché Luzzagni, intel­lettuale versatile e intelligente che, per un innato e virile pudore, non ama ostentare il suo talento, è e rimane, in tut­te le cose che fa, soprattutto, un poeta ca­pace di trasformare in canto la voce one­sta e debole degli ultimi e i frammenti di microstoria di una società a cui, forse, un Dio minore ha riservato un destino dannato alla polvere e all'oblio.

L'intento dichiarato dello scrittore è quello di salvare una gemma preziosa della memoria collettiva e un pezzo di storia che certamente finirebbe col per­dersi, per la semplice ragione che non può contare su alcun documento scritto ma solo su una trasmissione orale de­stinata ad affievolirsi e poi a scompari­re... Ma, come già sottolineato all'inizio, questa è solo la motivazione presente sulla superficie, quella visibile anche a chi si ferma solo a considerare l'aspetto esteriore delle cose. Chi, invece, guarda più a fondo scopre che grande genera­trice della ricerca è stata la matura presa d’atto della cruda verità da parte di un uomo che ha attraversato la vita senza mai abbandonare i suoi sogni e, tuttavia, senza mai coltivare progetti velleitari e lontani dalla durezza di una realtà irta di contraddizioni, di soffe­renza e di ingiustizie. Ricco di una reli­giosità naturale e congenita, immune da ogni sorta di fanatismo e bigottismo, Luzzagni ha della vita una visione amara e, tuttavia, sempre sorretta da una insaziabile voglia di libertà e di lu­ce. E questo il segno caratteristico del suo stile di uomo e di artista che, a buon diritto, merita di essere annovera­to tra gli intellettuali più autentici del nostro tempo. Un artista che, conoscen­do la fugacità delle cose e gli inganni legati all'esiguità del tempo concesso ai viventi, non si limita a capire e a soffri­re, non si lascia travolgere dall'onda incombente dell’oblio; contro il nulla che avanza, mette in atto, infatti, la sua estrema strategia di difesa, tentando di salvare almeno i "nomi", le forme, i fantasmi di una realtà destinata a rare­farsi e a disperdersi in impercettibili granelli di polvere...

E, forse, al di là di quello che dice, condivide, nella parte più nascosta del suo cuore, quanto scrive Umberto Eco, a conclusione del suo II nome della rosa: "Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (la rosa primitiva non esiste più che per il suo nome, noi non conservia­mo che nomi spogli della realtà che essi significano)".

 





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